L’ultimo canto della sei corde.
Difficile credere che uno strumento possa cantare, avere una voce. Di solito si parla di timbro. Eppure, ogni qualvolta ci è capitato di ascoltare la chitarra di Jeff Beck quella è stata l’impressione che ci ha dato. Rod Stewart, suo compagno di strada in un paio di avventure, sosteneva che la Fender di Beck dialogasse con la sua voce e che l’effetto fosse tanto straordinario quanto inatteso. La chitarra di uno dei più influenti strumentisti al mondo ora non canta più. Le sue mani hanno smesso di toccare le corde con quel suo modo così riconoscibile, magico e difficilmente riproducibile il 10 gennaio scorso. La sua parabola artistica comincia con gli Yardbirds quando viene chiamato a sostituire un “tale” Eric Clapton che migra nei Bluesbreakers di John Mayall. Jeff è un creatore di suoni, un artista seminale e, sicuramente, il chitarrista più significativo di quella tornata di musicisti britannici blues che ci hanno regalato così tanto e che erano inarrivabili, fino a quando nella grande isola non è sbarcato, dall’altra parte dell’Atlantico, un uragano che si chiamava Jimi Hendrix. Poco incline agli effetti e gli artifizi, si affidava ai canali del suo amplificatore e alle sue sapienti dita. Ancora formidabile, la sua parabola vitale e artistica finisce per una forma letale di meningite batterica. Speriamo che i suoi semi, che hanno già fatto germogliare molti artisti e band sia da un punto di vista creativo che tecnico, siano a maggior ragione di ispirativi in questa epoca di omologazione e appiattimento così poco dignitoso.
David Crosby: folk rock e passione.
Purtroppo, senza nemmeno il tempo di asciugarci le lacrime, veniamo funestati da un’altra dolorosissima perdita. Ci ha lasciato anche David Crosby, un grande musicista e cantautore, noto soprattutto al grande pubblico per la sua militanza nei Byrds e per la super band con Stills e Nash prima e poi con l’aggiunta dell’hippie per antonomasia, Neil Young. Un altro grande che ha seminato molto. Un autore che viveva nella storia, che ne capiva i cambiamenti e le distorsioni che li accompagnavano. Un pacifico ribelle contro la globalizzazione del capitalismo, le guerre e le discriminazioni. Contro i fucili che dovevano piegare i vietcong, sulle dodici corde della sua Rickenbaker rimaneggia con i suoi Byrds una canzone di Bob Dylan, Mr. Tambourine Man, inventando un riff che cambia la canzone e il destino della band. Intanto al Golden Gate Park, al Village e nei college si alza il tono del dissenso che diventerà poi uno tsunami contro la “Sporca Guerra”. Crosby è stato fino all’ultimo un rivoltoso, un autore che non ha avuto paura di esprimersi anche contro chi, con violenza, voleva soffocare la voce di chi lottava per la giustizia sociale e per la pace. Un autore appunto, che ha (come altri e come il già citato Bob Dylan) dato grande dignità ai suoi testi oltre che ai suoi riff. David ha ispirato ed è amato tra gli altri da un gruppo di una certa fama che risponde al nome di Pearl Jam.
Tom Verlaine, l’uomo della Luna.
C’è un confine. Un momento o un luogo oltre al quale tutto cambia. Per me e per almeno tre generazioni di appassionati di musica quel confine è Marquee Moon. L’album dei Television di Tom Verlaine (al secolo Thomas Miller) traccia un solco, un distacco rivoluzionario, un approccio che anticiperà tendenze e gruppi, per referenze chiedere a R.E.M. e Sonic Youth, tra gli altri. Sulla sei corde, le mani di Tom molto meno “maledetto” del poeta francese che omaggia, facendosi prestare il cognome ma, maledettamente, ispirato… e affilato e freddo come una lama, porta i Television in un suono che sarà costitutivo del post punk e della new wave ancora in attesa. Siamo nel 1977 e i Television hanno precorso i tempi e lo hanno fatto con un solo lavoro, dove si mescolano tendenze punk, rock e jazz. Se nella vostra libreria non c’è quel disco, avete un problema, sappiatelo. Ora che Tom ci ha lasciati, credo che nessuno di quei ragazzi che ho citato più sopra, guarderà la Luna nello stesso modo.
di Paolo Pelizza
© Rock targato Italia
PS: In molti in questa ultima settimana mi hanno chiesto di recensire Rush! l’ultima fatica in studio dei Maneskin. Vi chiedo di perdonarmi ma confermo che non lo farò. Sono convinto, infatti, che in molti (forse troppi) hanno già abbondantemente esplorato ed esaurito l’argomento ed erano, spesso, più competenti di me (o anche molto meno competenti di me). Trovo che sia stucchevole, soprattutto se sei uno che non ha niente da dire o non ha più niente da dire, diventare un detrattore o un appassionato difensore della band romana solo per conquistarsi qualche commento sui social e qualche articolo di giornale. Fossi nei ragazzi, mi farei pagare. Infine, chiedo scusa per non essere stato sulla notizia della scomparsa di questi straordinari musicisti ma, come sapete, io non preparo “coccodrilli” e spero che questi Dei della musica siano, in quanto divinità, eterni.
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