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The Mastermind: Kelly Reichardt e la decostruzione del genio criminale. Di Fabio Pigato.

  • francescocaprini
  • 16 nov
  • Tempo di lettura: 2 min

  

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Partiamo dall’ironia del titolo: chi organizza un furto di quadri in un museo, confidando sulla sonnolenza quasi narcolettica della guardia, probabilmente non è una mente geniale. Eppure la speranza di arricchirsi da un giorno all’altro, grazie a un unico colpo che cambia la vita, resta un pilastro del sogno americano. Anche in un’epoca di grandi trasformazioni sociali come gli anni settanta, segnata dalle invettive di Richard Nixon contro i giovani manifestanti. Invettive che ricordano in modo inquietante quelle più recenti di Donald Trump.


Titolo originale: The Mastermind

Regia: Kelly Reichardt

Anno: 2025

Paese di produzione: USA

Durata: 110 minuti


La regista Kelly Reichardt ci consegna con The Mastermind (2025) un film che può essere letto da diverse prospettive. Il classico genere americano del giallo/thriller/poliziesco viene qui decostruito e privato dei suoi meccanismi stereotipati. La prima arma della Reichardt è la lentezza: piani fissi e inquadrature lunghe che mettono in risalto l’incapacità criminale dei protagonisti, più che la tensione del colpo. L’aspetto sociale e politico, la protesta contro la guerra in Vietnam, le politiche di Nixon, rimane sullo sfondo. Strategia che invita lo spettatore a soffermare l’attenzione sui dettagli, in contrasto con il ritmo volutamente dilatato della narrazione. Un terzo elemento essenziale è la colonna sonora jazz, composta e interpretata da Rob Mazurek, trombettista e compositore statunitense. Le sue melodie sincopate evidenziano ancora di più (se ce ne fosse bisogno) la goffaggine e i passi falsi del protagonista J. B. Mooney (Josh O’Connor), ex studente d’arte disoccupato, figlio di un influente giudice del Massachusetts. J.B. è sposato con Terri (interpretata da Alana Haim, musicista dell’omonimo trio pop-rock), una presenza costante e silenziosa. È una figura che vive l’inadeguatezza del marito con rassegnazione e sofferenza, prigioniera della precarietà economica e affettiva della famiglia. In questo contesto si muovono anche altri personaggi palesemente inadatti alla vita criminale. Esilarante la scena in cui, nello scantinato di J.B., i tre improvvisati ladri provano delle calze da donna come passamontagna: un momento divertentissimo, che rivela tutta la loro goffaggine. Da qui in poi,  prende avvio una sequenza di eventi sempre più disastrosi, che costringerà il protagonista a rimettere in discussione tutte le sue convinzioni esistenziali. Sul racconto della trama mi fermo qui: non voglio togliere allo spettatore il piacere di assaporare il linguaggio visivo e musicale di questo film destrutturato, che oltrepassa i confini dei generi di riferimento e si muove liberamente tra commedia, dramma e riflessione sociale.

The Mastermind può essere letto come un affresco sulla disillusione e sul sentirsi inadatti a qualsiasi cosa: alla vita borghese, al lavoro coatto, ma anche al percorso personale che si era scelto. Che si tratti di una famiglia da mantenere o della vita alternativa sognata da ex studenti di un istituto d’arte, tutto sembra destinato a un inevitabile declino. È la condizione di chi abbandona il campo prima ancora dell’inizio della partita, rifiutando di aderire a un modello di successo ampiamente condiviso. Kelly Reichardt racconta una storia che, in sé, non è nuova, il disastro di un sogno americano che tradisce coloro che ci credono, ma nuovo è lo sguardo con cui la osserva. Il suo cinema lavora sul vuoto degli ambienti e dei sentimenti.


The Mastermind:  Kelly Reichardt e la decostruzione del genio criminale.

Di Fabio Pigato.

per Blog Rock Targato Italia

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