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Sleaford Mods – The Good Life di Fabio Pigato

  • francescocaprini
  • 27 ott
  • Tempo di lettura: 2 min


Sleaford Mods – The Good Life

Non con il sistema, non contro il sistema, ma a lato del sistema 


Analisi tra affinità e divergenze della figura del loser, passando dal rissoso duo, attraverso Beck e arrivando a Fante. The Good Life è il nuovo singolo degli Sleaford Mods, duo rap/post-punk di Nottingham. Il brano si apre con la frase: I’m not punching down, lads “non voglio prendermela con i più deboli”. Williamson dice di non avercela con chi sta peggio, ma sa che il suo carattere diretto e rissoso finirà comunque per dare questa impressione. Se la prende con la good life, la “bella vita” che arriva con il successo: ambienti pieni di ricchi e poser, gente che imita chi ce l’ha fatta solo per convenienza. Se la prende con l’industria musicale, che critica da sempre, ma con il senso di colpa di chi sa di essere, anche suo malgrado, parte della macchina. Un ingranaggio privilegiato. Quindi: non con il sistema, non contro il sistema, ma a lato del sistema. Sarebbe possibile? Forse è questo il vero sottotesto del brano. Il tutto si muove su una base minimalista e post-punk, arricchita dai (molto azzeccati) interventi di Gwendoline Christie e BIG SPECIAL. Partendo da questa interpretazione, vengono in mente Loser di Beck e Chiedi alla polvere di John Fante. Beck scrive Loser nel 1993, di getto e senza grandi aspettative: la storia ironica di un ragazzo senza soldi che vive ai margini di una scena musicale opulenta, quella di Los Angeles negli anni Novanta. I’m a loser baby, so why don’t you kill me?  “Sono un perdente, quindi perché non mi ammazzi?”  significa: non valgo niente, ma almeno ne sono consapevole. È l’atteggiamento del perdente postmoderno, che attraversa frasi spezzate e immagini nonsense in stile cut-up fino a trasformarsi in un inno alla coscienza del fallimento. Nella narrativa di Fante, invece, l’America è ancora un paese pieno di illusioni pronte a infrangersi. Arturo Bandini non ride del fallimento: ci si infila dentro e ne soffre. Ma quella sofferenza diventa, allo stesso tempo, una speranza di riscatto, intrisa della morale religiosa della famiglia di origine. Fante racconta vite fatte di fame, vergogna per il proprio status sociale e culturale, e povertà. Eppure, da quella miseria nasce un linguaggio poetico, pieno di fede e bestemmie, dove la sconfitta si trasforma in un atto di coraggio e di elevazione contro l’illusione della good life  e qui il cerchio con gli Sleaford Mods si chiude. Tra Beck e Fante ci sono contesti culturali lontani, ma anche una profonda affinità emotiva: entrambi smontano l’ipocrisia del “vincente”. Beck lo fa con un linguaggio postmoderno, mescolando cultura alta e bassa, folk, rap, nonsense e grottesco. Fante lo fa raccontando la miseria dell’underdog, la dignità del fallito e il sogno impossibile di essere amato per ciò che si è. Se Beck rappresenta la rassegnazione consapevole, Fante incarna la speranza disperata. Gli Sleaford Mods sembrano riuscire a condensare entrambe queste visioni di umanità nuda: nessuno riuscirà ad addomesticarli, e nessuno potrà farli smettere di urlare contro un sistema che tenta di inglobarli. Comunque vada, non dobbiamo avere paura di fallire, ma solo di non averci provato abbastanza


Di Fabio Pigato

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