top of page

ROBERT, IL CONTABILE. Di Paolo Pelizza

francescocaprini



Capita che tu debba (è quasi un dovere) ascoltare un nuovo disco di una band che (dal tuo punto di vista) aveva fatto il suo tempo. Il penultimo album, di sedici anni fa, non aveva nessun appeal e, soprattutto, non sembrava nemmeno uscito dalla strana e geniale testa di Robert Smith.

Per quanto io non sia mai stato un fan di The Cure ne ho sempre apprezzato le idee e la musica che ne è scaturita. L’ho fatto adorando dischi come Three Imaginary Boys punk fino al midollo, Seventeen Seconds che costituisce la svolta dark , poi dischi iconici come Faith, Pornography e Disintegration. The Cure, nel loro modo, hanno inventato e reinventato un genere trascinandolo e “strapazzandolo” tra dark e pop ma nessuno può togliere a Smith e soci il valore della loro operazione e della loro parabola.

Per onestà, ai tempi ero più affascinato dalla possibilità della ribellione che ad una profonda introspezione del disagio giovanile e guardavo il gruppo dei dark come strani personaggi un po’ ignavi. Diciamo, anche, che come ha scritto Stendhal, la giovinezza è una malattia dalla quale purtroppo si guarisce. Si comincia a recuperare la sana curiosità di cercare di comprendere  gli altri, l’empatia sostituisce l’egocentrismo e si sperimenta la capacità di provare la paura, il dolore di quelli per cui la vita è stata un’amante che non corrispondeva e che alla fine, divenuta fedifraga, ti toglieva tutte le illusioni e le aspettative lasciando soltanto una solitudine senza via di uscita.

Il primo di novembre dell’anno 2024, capita che qualcuno dica che è uscito Songs of A Lost World e che la notizia arrivi ad uno svogliato Visionario che voi ben conoscete e che ha la stessa voglia di ascoltare questo disco tanta quanta ne ha di iscriversi alla discussione sulla nuova cantante dei Linkin Park. Cioè nessuna. Però poi si capitola … Due orecchie che funzionano le abbiamo e tanta roba inutile la sentiamo tutti i giorni. E’ così che la giornata svolta e che capisci perché il peggior coglione è quello indisponibile a cambiare idea. Lo capisci perché quel coglione sei tu.

Songs of A Lost World è uno dei migliori lavori di Robert Smith. Lontano dal cupo disagio giovanile, il Nostro lavora sul tema del tempo e prova a fare un bilancio. In realtà due: uno più individuale ed esistenzialista, un altro sul mondo che involve, che ignora la conoscenza della Storia e che continua a ragionare come se gli ultimi due secoli non abbiano avuto nulla da insegnare e non abbiano insegnato nulla. Dentro a questo bilancio ci sono il senso di colpa per quelli che abbiamo lasciato indietro (volenti o nolenti), il rammarico per gli addii che non siamo riusciti a dare (il riferimento al fratello scomparso di Robert è chiaro e toccante) e la lucidità con cui si critica una modernità sempre più asettica, disumanizzata e disumanizzante. Lo fa destreggiandosi con intro lunghissime e poco radiofoniche ma lo fa soprattutto con liriche profonde scritte con grande perizia e autenticità anche laddove vengono citati altri poeti (farina non del suo sacco ma ottima farina). D’altra parte, il poeta Ezra Pound aveva sempre avuto la consapevolezza e dichiarato che la poesia non era una branca della letteratura ma che fosse, come disciplina,  molto più vicina alla musica.

L’album è anche ricco musicalmente di riferimenti storici con sonorità che vengono abilmente cesellate tra punk, rock e synth pop. Una miscela sapiente di chitarre, piano, batteria, basso e tastiere che “cita” l’evoluzione tra gli ultimi anni Settanta e gli Ottanta (c’è tanto di Disintegration), nel percorso di una band che non è mai stata come le altre. Un gruppo che, forse, più degli altri, ha rincorso la contemporaneità ma che è stato capace di trarne le criticità prima di acquisirne le mode. Un lavoro sul tempo che non ha e non avrà mai tempo per invecchiare o per diventare banale. Otto tracce cicliche che raccontano il tempo pre-cristiano, quello del fruire delle stagioni, quello dell’eterno ritorno e che si fanno ascoltare e riascoltare in una loop che racconta l’inizio e la fine di tutto e, di nuovo, l’inizio.

Robert Smith fa un bilancio lucido e spietato. Ha fatto la revisione della sua storia, di quella di un genere, di quella della sua band e della nostra umanità.

The Cure archiviano la loro carriera con uno dei loro migliori lavori. O forse no. Forse non l’archiviano … O speriamo che non lo facciano.


di Paolo Pelizza

©2024 Rock targato Italia

Comentários


bottom of page