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La working class riscopre il Parka. La reunion degli Oasis, di Fabio Pigato

  • francescocaprini
  • 28 lug
  • Tempo di lettura: 5 min

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Due fratelli. Anzi, tre. Un padre violento, una madre che li porta via e fa mille lavori per riuscire a tirare avanti. Scarsa istruzione, scarse prospettive, pochi soldi, tanta arroganza e una spiccata attitudine allo sberleffo e al consumo di sostanze, che lì avrebbe sicuramente messi nei guai se non se ne fossero andati via. Come location le case popolari di Burnage, periferia di Manchester, dentro un’Inghilterra che negli anni ’90 aveva appena smesso di credere nella classe operaia. Le politiche neoliberiste di Margaret Thatcher e Ronald Reagan avevano svuotato le fabbriche, tagliato il welfare, spezzato l’idea stessa di futuro per chi non poteva permettersi un’università o un’eredità, distruggendo la coscienza di classe e il senso di appartenenza a una comunità. In quel vuoto urbano e sociale nascono gli Oasis, tra partite di calcio per strada, lavoretti precari e serate al pub che finiscono spesso in rissa.

La loro ascesa la conosciamo tutti: dal fondo della working class al centro delle classifiche mondiali, diventando un’icona, insieme ai rivali Blur, del movimento che venne chiamato Britpop, capace di mettere d’accordo la gente comune e i grandi festival. Ma oggi non ci interessa ripercorrere le solite tappe. Ci interessa capire cosa rappresenti la loro reunion. Perché, se è vero che i concerti fanno sold out in pochi minuti, alimentando anche un meccanismo perverso, il dynamic pricing, che ne indicizza il valore sulla base delle richieste e fa schizzare alle stelle i prezzi (diventando un caso politico oggetto di un’interrogazione parlamentare) è altrettanto vero che il ritorno degli Oasis non è solo un evento musicale. È un atto culturale, simbolico, profondamente urbano.

Manchester non è uno sfondo. È il suono, il passo, l’identità. Gli Stone Roses hanno segnato la strada, ma gli Oasis ci sono cresciuti dentro, allargandone il solco con un’ostinazione che ha trasformato la loro città nella capitale mondiale di un nuovo sound. Sono riusciti a cucirsi addosso un’attitudine punk anche senza creste colorate, piercing e tatuaggi. Non si sono nascosti dietro a maschere e non sono mai stati diplomatici. Rendendosi spesso antipatici ai colleghi e non solo.

Chiunque può identificarsi con loro. I ragazzini che lì vogliono emulare non devono litigare con i genitori perché si sono fatti troppi tatuaggi. Anzi, probabilmente mamma e papà lì considereranno good looking. Bastano un parka, jeans dritti, sneaker di una nota marca di abbigliamento sportivo e sguardi duri. Lo stile dei Mods anni ’60 reinterpretato e attualizzato. Non a caso dopo l’annuncio della reunion, oltre ai prezzi dei biglietti, sono andati alle stelle anche i prezzi dei suddetti capi di abbigliamento. (figuriamoci se l’industria della moda si lasciava sfuggire un’occasione del genere). Ma non è una questione puramente di tendenza o di marketing aggressivo. È sociologia dell’identità urbana. Gli Oasis vestono come il ragazzo qualunque che guarda la partita della sua squadra al pub facendo troppo casino.

I riferimenti musicali sono chiari: The Who, i Beatles, soprattutto l’amato John Lennon, i primi Rolling Stones e naturalmente gli Stone Roses. Noel impara a suonare la chitarra da autodidatta in camera sua. Poi parte in tour come roadie degli Inspiral Carpets, e al ritorno trova Liam che canta in una band. Anche questo ricorda un cliché: ragazzi normali con sogni giganteschi. Commoners in tutto e per tutto. Non spaventano con tecnica sovrumana, non cercano troppo l’introspezione e, tolta una sbadata di Noel per il primo Tony Blair, si tengono lontani dalla politica. 

I murales che compaiono in città in questi mesi sembrano dei riti di appartenenza visiva, segnali che indicano un ritorno d’identità. Come quando in un quartiere spunta la bandiera della squadra del cuore dopo una vittoria. Gli Oasis rappresentano quella stessa cosa: un orgoglio popolare che torna a cantare. 

Come reazione Wonderwall, subito dopo l’annuncio, ha superato i due miliardi di ascolti streaming. Tre dei loro dischi sono rientrati nelle classifiche britanniche, al primo, secondo e quarto posto. Non è revival. È bisogno di casa. In un’epoca fluida, frammentata, dove tutto si consuma e si dimentica in fretta, una canzone come Wonderwall diventa un punto fermo. Un rifugio emotivo, per chi ha fatto parte dell’ultima generazione analogica e che ora passa il testimone ai più giovani. I testi si possono cantare in un infinito singalong di sopravvivenza affettiva.

Il ritorno degli Oasis potrebbe mandare un messaggio chiaro: la gente è stanca dei prodotti perfetti, plastificati, scritti per gli algoritmi. C’è ancora fame di verità, di errori, di canzoni nate per strada e non in laboratorio, di Cigarettes and Alcohol. L’industria musicale, di cui innegabilmente fanno parte, lo ha capito ed è pronta a correre ai ripari. Forse questa reunion aprirà uno spiraglio anche per le nuove band: quelle che suonano ancora nei garage, che usano le chitarre e non l’autotune e che, anche se non avessero niente da dire, lo farebbero con stile. Perché se gli Oasis tornano e fanno sold out, significa che l’attitudine che hanno contribuito a creare non è morta. È solo stata messa in silenzio per un po’.

La mia è una visione ottimistica. (lo ammetto con umiltà).Molti storceranno il naso: troppi soldi, troppa pubblicità, troppa nostalgia, troppi reel che appaiono in continuazione quando facciamo scrolling sui social, tonnellate di merchandising di ogni tipo, prezzi dei biglietti troppo alti e testi con slogan ad effetto.I puristi del rock non li hanno mai seriamente presi in considerazione, anche per dei riff e delle melodie che ricordano molto da vicino i gruppi ai quali si ispirano.Queste sono le critiche che leggo negli articoli a loro dedicati, unite al fatto che la presa in giro e l’arroganza sono un marchio di fabbrica con cui i fratelli Gallagher hanno sempre giocato, creando siparietti e botta e risposta entrati nella storia degli insulti creativi, non graditi a tutti.

Li posso capire: hanno le loro ragioni. È innegabile che i fratelli abbiano fatto bene i conti prima di accettare, e che l’aspetto economico sia stato uno dei fattori chiave che li ha convinti a riappacificarsi.

Però voglio continuare a pensarlo come un punto di svolta che dia modo a nuove band di imporsi in un panorama musicale per troppo tempo dominato da canzoni di plastica ben impacchettate.

Concedetemi, per questa volta, di non vergognarmi per il fatto di far parte di un coro.Possibilmente godendomi lo spettacolo senza uno smartphone in mano.Consapevole del fatto che Morrissey e Marr non faranno mai pace.


La working class riscopre il Parka

La reunion degli Oasis

di Fabio Pigato

 

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