Ph. Elena Di Vincenzo x Alcatraz Milano
All’Alcatraz la serata degli innamorati, organizzata da Vertigo, si tinge di metallo e comincia nel tardo pomeriggio, verso le 19.30, con l’arrivo sul palco degli Atreyu. Capitanati da un Brandon energico e in buona sintonia con il pubblico, gli statunitensi propongono un piacevole best of di circa quaranta minuti.
Seguono i Jinjer, gruppo ucraino caratterizzato dalla notevole precisione tecnica e dalle molte contaminazioni musicali. Il loro metal spazia tra progressive, djent e death, toccando anche sfumature hardcore punk colorate con tratti jazz, hip hop e reggae: un prodotto davvero inedito, interessante, che non passa inosservato. Tatiana Shmailyuk è una frontwoman di talento: vestita con un body fucsia fosforescente dà prova della sua eccellente versatilità nel saper passare prontamente dal canto melodico e pulito (in stile soul e R&B) al cupo e profondo growl.
Vedere un gruppo che, nonostante il conflitto bellico in corso nel suo paese, si propone così energico ed entusiasta di suonare (e vivere inoltre una buona ascesa sul mercato discografico) fa davvero piacere.
Rapido cambio di palco da parte degli attrezzisti e per le 21:00 la scenografia dei Bullet For My Valentine è pronta: una folta composizione di riflettori rotanti puntati su palco e pubblico.
Piacevole e d’effetto, nel corso dei lavori, ascoltare in sottofondo (tra le diverse) le mitiche Chop Suey! (System Of A Down) e One Step Closer (Linkin Park), ovviamente molto apprezzate dai presenti.
La serata spazia da The Poison (2005) a Bullet For My Valentine (in deluxe nel 2022), aprendo con il tono trash e veloce di Knives: l’urlo «Let the madness begin» al primo verso ci immerge da subito nel sistema metalcore dei BFMV, un muro sonoro aggressivo ma molto pulito, chiaro e distinguibile nei suoi elementi: lungo tutto il live si è sentito alla perfezione (il locale di via Valtellina in questo è sempre una sicurezza) e con un po’ di concentrazione era facilmente percepibile il singolo lavoro di ogni strumento.
Il brano iniziale trasmette subito l’aggressività ritrovata dal gruppo nell’ultimo album loro omonimo (persa invece, a detta di molti, nelle produzioni precedenti, considerate dai navigati del genere come troppo soft, commerciali, costruite su misura per adolescenti innamorati dell’emocore) e presentato in scaletta con tre pezzi ulteriori: Shatter, Raimbow Veins e Death By A Thousand Cuts.
The Poison rimane chiaramente l’album più celebrato: 4 Words (To Choke Upon), All These Things I Hate (Revolve Around Me) e Suffocating Under Words Of Sorrow (What Can I Do) sono accolte con forte entusiasmo dall’audience, mentre Tears Don’t Fall, com’era prevedibile, disegna il momento apice del concerto: il buon Matthew Tuck suona da solo con l’elettrica un’introduzione al brano emozionante e raffigurante il primo giro di strofa e ritornello (che il frontman lascia cantare al pubblico), per poi esser raggiunto dai tre compagni di viaggio e dar vita a pieno carico alla loro hit più famosa.
Bello vedere in scaletta un corposo omaggio a Scream Aim Fire (secondo album della produzione), eseguito tramite il brano omonimo, Waking The Demon (in chiusura di concerto) e la bellissima Hearts Burst into Fire, momento più bello del concerto per il sottoscritto.
Alla potente Your Betrayal, a mio avviso il miglior biglietto da visita del gruppo, viene riservato l’inizio encore, con un Jason Bowld libero di sfogare il suo virtuosismo.
Coinvolgenti e di carattere tutti e quattro i musicisti, forti e precisi sui loro strumenti (sempre piacevole vedere schitarrare Michael Paget, unico superstite della formazione originale insieme a Tuck), ma la nota di merito non può non andare al bassista Jamie Mathias: enorme carisma, ottimo screaming e gran tempra sulle parti vocali melodiche, eseguite in più punti (forse per dar riposo alle corde vocali di Tuck, ma preferisco pensare sia per merito del suo timbro, davvero bello).
La serata è accompagnata da un pubblico appassionato, presente con precisione sulle lyrics e tutto sommato molto (troppo?) composto: in occasione di qualche brano si è accennato il circle pit davanti al palco e si è sollevato qualche fan per farlo fluttuare sul mare di mani, mentre il classico mosh pit non è mai stato lanciato .
A concerto chiuso, con le luci di sala accese e buona parte del pubblico già in fila al guardaroba, i ragazzi sembrano non voler lasciare il palco, divertendosi a lanciare un centinaio di plettri (almeno, ma forse anche di più) sulla folla, oltre ai fogli scaletta e al grande classico delle bacchette della batteria.
Prossimi a festeggiare tra un paio di primavere il ventennale della loro nascita, i BFMV sono più freschi che mai, entusiasti come ai vecchi tempi e vogliosi di ripartire riportando in scena i suoni forti che li hanno lanciati negli ormai lontani mid-2000s.
Umberto Lepore
@thesound.ofbeauty
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