Durante lo spettacolo organizzato da OTR Live sentiamo Alex Britti parlarci a tratti.
La sua voce si propone in chiave narrante, presentando qualche brano, aprendo lei stessa la serata con un breve monologo sul curioso rapporto tra l'uomo e l'immaginazione, la fantasia… i sentimenti che portano via la mente.
Giocando su una dolce Gibson acustica l'artista attacca a suonare e sin dai primi minuti instaura un familiare dialogo tra l’acustica e il pubblico del Teatro Lirico Giorgio Gaber, espresso bene dalla location che ha scelto per il tour: uno scorcio di salotto composto da un divano (dove siede), un tavolino con un paio di bicchieri e qualche lampada attorno dai colori caldi. Sulla scia di Mojo, ultima pubblicazione, la sua prima strumentale, Alex si racconta da solo, suonando funambolicamente lo strumento, trasmettendo la sua profondità e intensità. Bluesman dal talento fino, dolce e raffinato, preciso nelle sfrontatezze, originale nell’alternare gli arpeggi alle accelerate con il plettro.
Nella prima metà di show rimane di poche parole, lascia pieno palco alla musica: avvolgente, semplice, tutta performata da lui.
Al primo switch di chitarra imbraccia la resofonica ("dobro"), celebre presenza nella copertina di Brothers in Arms dei Dire Straits, eseguendo con lei un paio di brani, spingendo vigorosamente il suo robusto suono.
Tornato alla Gibson introduce il brano Jazz, una dedica d’amore al genere musicale cappello di un’altissima percentuale di tutta quanta la musica: chi suona primo o poi ci sbatte contro la testa. Insegna a improvvisare, allarga le idee, guida allo studio del suono; allo stesso tempo, però, isola dalla contemporaneità e ci porta su una nuvoletta, estraniandoci dalle innovazioni della musica contemporanea. Dunque lontano, ma fondamentale. Britti gioca a parlare di questo genere con simpatia, purezza, ammirazione.
È la volta della chitarra a corde di nylon e del brano Immaturi, colonna sonora del film omonimo diretto dal suo amico Paolo Genovese: una rispolverata di un blues lasciato nel cassetto e ultimato grazie a questa proposta.
Imbracciata una E-ros nera a dodici corde si sofferma sulla sua passione per Bennato, su quanto tempo trascorresse da piccolo a suonare le sue canzoni, con il poster in camera e tutti gli album sul comodino. A sette anni ricevette in regalo la sua famosa 12 corde nera (anche se quella di Edoardo era una Eko). Suona quindi un successone del suo idolo, L’isola che non c’è, che grazie alla sua versione all’MTV Unplugged del 2007 una buona fetta del pubblico ritiene sia opera sua: Alex ed Edoardo, grandi amici e colleghi, ci scherzano continuamente su questo divertente incrocio delle loro carriere.
Durante il lockdown Alex non si è fermato: ha suonato sempre, studiando, migliorandosi, provando a fare qualcosa di bello per il suo pubblico. Produsse così Una parola differente, che ci suona con passione.
Il concerto vede accompagnare alcuni brani da un beat tenuto da lui stesso con il piede, appoggiando ogni tanto la voce su un lieve eco.
Scordata la chitarra attacca Una su 1.000.000 cantandola assieme a tutto il pubblico, dopo averci confidato di essere venuto a conoscenza dal figlio della fama del brano nelle scuole, proposto dalle maestre come canzone da far cantare ai bambini.
Ritorna sul palco la chitarra di ferro, questa volta quella arancio-marroncina, presente nella copertina del tour: ditale al mignolo sinistro e via, che blues sia. Arriva a proporre Mojo ed Esci piano, non dopo essersi nuovamente lasciato inebriare dal fascino di lasciare all’improvvisazione il compito di introdurre una canzone.
Propone al pubblico Milano, brano dedicato alla città dove ha vissuto per tanti anni, dove torna sempre volentieri, dove conserva molte amicizie.
Tornato a riflettere sul jazz sottolinea nuovamente quanto l’essere immersi in esso e nel blues non permetta di arrivare al mainstream, alle radio, e come si debba cambiare un po’ abito a questi due generi per raggiungere il grande pubblico. Ma una serata come questa dimostra come l’essenziale, la semplicità, il puro amore per l’acustico declinato in chiave jazz e blues rimandino con fascino alle origini della musica contemporanea, ai grandi maestri americani.
Rientra la Gibson e battendo su di lei il cantautore chiude la serata. Ripropone un momento di virtuosismo lasciandosi andare con l’improvvisazione, giocando con il pubblico che batte le mani e lo invita ad accelerare, spingendosi a muovere sempre più velocemente le mani sulle pentatoniche finché non comincia a cantare insieme a tutto il teatro 7000 caffè, Solo una volta e Oggi Sono Io.
Divertente e sfrontato il suo commento su quella curiosa pratica che accompagna i concerti, i famosi bis, il momento nel quale l’artista conclude la scaletta ed esce dal palco per pochi istanti, raccogliendo l’acclamazione del pubblico e facendo rientro in scena per un paio di ultimi brani. Non una pratica applicabile a una serata come questa, una serata in confidenza. Ci siamo sentiti a casa, seduti sul divano di fianco a un amico musicista che ci presenta la sua arte. Si alza in piedi e munito di microfono a guancia suona in proscenio La Vasca e Baciami (e portami a ballare), abbracciando il suo pubblico, festeggiandolo e festeggiandosi, celebrando il suo magistrale gusto per la musica e in particolare per l’atmosfera “spiritual chitarristica” degna di un vero bluesman d’altri tempi.
Umberto Lepore
@thesound.ofbeauty
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