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  • francescocaprini

IL LATO GIUSTO DELLA STORIA di Paolo Pelizza

I

IL LATO GIUSTO DELLA STORIA.


“Mandare luce dentro le tenebre dei cuori degli uomini.

Tale è il dovere dell’artista.”

(Robert Schumann)


Qualche settimana fa, in una allegra discussione da bar, un amico parlando dei suoi e dei mie gusti musicali, mi ha chiesto cosa dovrebbe avere una canzone per essere considerata una buona canzone, secondo il mio giudizio. Lì per lì, me lo sono domandato anche io. Cosa mi fa apprezzare il punk più “ignorante” e il brano classico più colto e tecnicamente impossibile? Così ho tagliato corto, promettendogli che appena l’avrò capito sarebbe stato il primo a saperlo.

Il compito di capirlo, quantomeno in termini razionali, è stato più arduo del previsto. Eppure scrivo di musica da otto anni, la ascolto, l’ho studiata, ho studiato la storia … e, anche se male, l’ho suonata. Mentre io cercavo di risolvere interiormente questo arcano, nel mondo succedevano cose terribili alle quali purtroppo ci siamo assuefatti. Quanti morti ieri in Ucraina? Ce lo chiediamo come chiedessimo se è avanzato un croissant alla marmellata di albicocche. Ancora bombe su Gaza? Come se fossimo indecisi tra la zuppetta tiepida di pesce o lo spaghetto alle vongole al ristorante. Una frase, frettolosamente attribuita a Stalin da un articolo del New York Times uscito nel 1958, recita che “una singola morte è una tragedia, un milione di morti, una statistica.” Peccato che quei milioni di morti hanno anche loro, un nome e un cognome, una madre, dei figli, degli amici e, prima che interessi geopolitici o economici beceri gliela togliessero, avevano anche una vita. Così, lentamente, vedo un flebile lumino in fondo alla caverna e inizio a credere di aver svelato parte del mistero, rispetto a cosa fa (per me) di una canzone, un grande pezzo.

Prima di tutto, credo che sia giusto dire che io amo quelli che hanno qualcosa da dire. Li amo anche se non hanno la mia stessa opinione. Soprattutto, se mi posso confrontare e magari trovare una sintesi. Credo di aver già citato il Lied di Schubert “Erlkonig” in questa rubrica. Il testo di questo è stato scritto, nientemeno, che da Goethe. La storia è molto semplice: un padre cerca di raggiungere un villaggio a cavallo, dove suo figlio malato potrà essere visitato e curato da un medico, mentre il figlio delirante per la febbre, racconta al padre che il re degli elfi lo vuole portare via con sé. Il finale è drammatico: la corsa del padre è stata vana e il suo povero figlio è morto. Se ascoltiamo solo la parte musicale scopriamo che nella musica c’è un racconto, ci sono degli appuntamenti che sottolineano i momenti della storia: la corsa disperata, l’apparizione della figura mitologica, la trattativa e, infine, il tragico finale. Il testo cantato racconta e spiega la storia rende cioè intelligibile dentro ad una narrazione ciò che la musica già ti ha dato in termini di emozione e suggestione. Per intenderci, se qualcuno canta di bottiglie rotte sotto i piedi dei bambini, io quel vetro e quelle ferite le devo sentire e, con loro, devo sentire quel dolore.

Secondariamente, ogni forma d’arte ed ogni artista, deve necessariamente essere un ribelle. L’arte è sempre politica ed è sempre (anche) una forma di lotta. La musica non fa eccezione. Anzi, essendo il linguaggio universale, ha maggiore responsabilità nel tentativo di determinare cambiamenti politici e sociali. Una grande canzone è questo: critica nei confronti dello status quo, sia il capitalismo, le discriminazioni, le persecuzioni, la guerra del Vietnam e qualunque altre guerre passate, presenti e future. Il punk, ad esempio, è stato un momento di disruption totale, la musica prima apparteneva ai musicisti e poi a tutti: l’arte deve necessariamente essere democratica. Quella frattura non ha, in realtà, democraticizzato il sistema del mercato musicale ma è stato un importante passaggio per chi ha fatto musica dopo, sia per quanto riguarda i temi, sia per quanto riguarda il songwriting. O il progressive rock che, al contrario, restituisce la musica ai virtuosi e inventa i concept album, delle vere e proprie opere, dove temi importanti venivano spesso trattati con l’uso di allegorie.

Forse, è per questo che la produzione musicale più contemporanea, mi interessa meno. Oggi anche le manifestazioni hanno regole senza senso. Se ti droghi non è un fatto tuo personale e alla manifestazione canora non puoi andare anche se sei un genio, un grande artista e un grande performer. Pensate che all’Eurovision Song Contest oggi non ci sarebbero potuti andare gli Stones, i Beatles, David Bowie, Lou Reed e l’elenco potrebbe continuare per una ventina di pagine. Se parli di pace, non puoi andare perché tutti vogliamo la guerra. De Gregori cantava che la guerra è bella anche se fa male… La verità è che la guerra fa un sacco bene a pochissima gente, fa fare un sacco di soldi ed è un ottimo sistema per gestire esigenze di egemonia geopolitica. Soprattutto, se la si fa fare ad altri per interposta nazione.

In questi giorni, Rovelli è stato ostracizzato dalla Fiera del Libro di Francoforte perché al concerto del I Maggio ha parlato di pace (tra l’altro non dal governo di destra). Poi, il suo amico Ricardo Franco Levi fa retromarcia nel tentativo di rifarsi il make up ormai sbavato irrimediabilmente. Sapete chi ha vinto l’Eurovision Song Contest? La Svezia è arrivata prima con Loreen, seconda la Finlandia e terzo Israele. Bé, a pensar male si fa peccato … ma la prima ha corteggiato la NATO prima di declinare (ma di fatto è ormai sotto la sfera d’influenza dell’Alleanza Atlantica) la Finlandia si è messa dalla parte giusta della Storia entrandoci recentemente e di Israele sappiamo come sappiamo che volevano proibire i concerti di Roger Waters in Germania perché ha parlato del rispetto dei diritti umani (cioè quelli sanciti dalla Carta Universale dei Diritti dell’Uomo). Chi ha vinto l’anno scorso, lo sappiamo. Insomma, indipendentemente da come la si pensi gli artisti se vogliono avere una chance devono stare lontani dal dissenso come Superman dalla kryptonite.

Ora, il problema è che o abbracci il pensiero unico o non ci vai là a farti vedere nella vetrina più importante d’Europa.

Che dire? La mia canzone preferita sarebbe, probabilmente, quella dell’unico scemo che contro il suo interesse si rifiuterebbe di andare. La sua canzone potrebbe essere bella o niente di che ma avrebbe mandato un segnale e dimostrato di essere un vero artista.

di Paolo Pelizza

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